"Corriere del Veneto", 7 dicembre 2003 Dall'ombra allo spritz. Quando il popolo veneto diventò "buon bevitore" Il vino, i suoi significati e la tradizione popolare EDITRICE SANTI
di Lorenzo Tomasin QUARANTA
Magazzino: Via Muggia, 7 “Chi ben beve, ben dorme. Chi ben dorme mal no pensa. Chi
mal no pensa, mal no fa. Chi mal no fa, in paradiso va. Ora ben
bevé, che paradiso avé”: parole sante, scritte di straforo da un
CF: MZZFRC39C16G846G anonimo cancelliere veneziano duecentesco su un registro di
deliberazioni del Maggior Consiglio, per ingannare il tempo, e che parlano di una saggezza antica.
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Difficile dire quando si sia affermato, in Italia, lo stereotipo del
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veneto buon bevitore: quel che è certo, è che una cultura del vino
esistette nella nostra regione fin dall'antichità, anche se bisogna aspettare il Medioevo per rendersi conto di quale valore avesse per Venezia e per terre del suo dominio un prodotto che, quasi del tutto assente per ragioni naturali in Laguna, veniva fatto confluire qui non solo dalle vicine terre della Venezia euganea, ma fin dai porti più lontani in cui il Icone marciano posava la sua zampa. Così, se il tributo annuale che la città di Capodistria doveva versare a Venezia veniva fissato già nel decimo secolo a cento anfore di vino, in altri casi era il commercio e non l'imposizione fiscale ad assicurare alla Repubblica Marinara il ruolo di punto di arrivo e di smistamento occidentale dei migliori prodotti vinicoli del Mediterraneo orientale: vitigni e non solo vini, visto che alcune varietà di uva, certo passate per il porto della Serenissima, sbarcarono assai per tempo nel Veneto provenendo da terre lontane, ma mantenendo denominazioni che ne ricordavano le origini. Così, sulle pendici delle colline venete si erano ambientati benissimo già nel Medioevo uve come la garganega, cioè «garganica», perché proveniente dal Gargano in Puglia, o la sciava, di chiara origine dalmatica (Schiavonia era infatti l'antico nome di quella terra).
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Particolarmente apprezzati, d'altra parte, erano a Venezia i liquori che provenivano direttamente dalle coste su cui si stendeva, nel Mediterraneo orientale, la rete dei fondachi Veneti. Le isole greche e Cipro erano così incessanti fornitori di bevande celeberrime, come la malvasia, vino prodotto nell'omonima città della Morea (cioè del Peloponneso) che a Venezia si consumava assieme ai biscottini, come costuma ancor oggi nelle osterie della città e in modo simile al 'usanza tipicamente toscana del Vin santo coi cantucci. La dolce malvasia greca era talmente apprezzata da diventare, per antonomasia, il nome dei locali che lo vendevano, la cui presenza lascia ancor oggi cospicue tracce nella toponomastica cittadina: grazie all'inesauribile fonte delle Curiosità veneziane di Giuseppe Tassini, possediamo ancor oggi un'immagine abbastanza chiara di queste rivendite, che a Venezia usufruivano di licenze separate rispetto a quelle dei venditori di vini nostrani, e avevano delle limitazioni - non potevano innalzare insegne, vendere cibi o distribuire carte da gioco - che ne impedivano la trasformazione in vere e proprie osterie: in punti di ritrovo, cioè, simili a quelli che prima dell'avvento dei borghesi caffè, costituivano il principale luogo di incontro e di scambio, non solo tra le classi popolari. Raccolti dunque in apposite confraternite, distinte da quelle dei venditori comuni, i mercanti di malvasia, nelle sue tre qualità correnti di dolce, tonda e garba, sì votavano al loro protettore San Giovanni Battista e si consolavano dei molti divieti imposti dalla Signoria considerando che il loro dolce liquore si era guadagnato, presso il popolo, il lusinghiero soprannome di «rimedio», cioè toccasana contro tutti i mali del corpo e dello spirito.
E se gli osti, protetti dalla Santa Croce e soliti riunirsi nella centralissima chiesa di San Silvestre (a pochi passi, non a caso, dalla riva del vin), erano soggetti ad un apposito dazio per la vendita del vino «alla spina», i mercanti di vino orientale favorivano - fors'anche coi loro prezzi - un impiego più parsimonioso dei loro liquori: «Si beve a gocce, come lo spirito di melissa!», esclama nella locandiera lo squattrinato Marchese di Forlimpopoli estraendo una bottiglietta minuscola del suo vin di Cipro, modesto concorrente del vin di Borgogna elegantemente scialato dal Cavaliere di Ripafratta («il vino di Borgogna - osserva Mirandolina - è prezioso. Secondo me, per pasteggiare è il miglior vino che si possa bere»). D'altra parte, che i vini migliori non son certo quelli «da tavola», e a parte le intemperanze dei beoni, la modica quantità è in genere compensata dalla qualità: proprio a questo principio allude il significato del popolarissimo termine veneto per il bicchiere di vino da osteria, quell'ombra sul cui nome la fantasia popolare ha elaborato spiegazioni ben più colorite, come quella, diffusissima, per cui l'ombra si chiama così perché un tempo veniva distribuita da venditori ambulanti che si riparavano all'ombra dei campanili.
Se ombra è certamente un nome moderno, non trovandosi traccia del suo significato «enologico» nei testi antichi, è pur
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vero che da sempre il luogo privilegiato del suo consumo è il chiuso dell'osteria, quella chein campagna si chiamava frasca, perché veniva segnalata con un'insegna addobbata di fronde, posta sopra la porta, e a Venezia finisce, in tempi relativamente recenti, per essere indicata col nome di bacare, concettualmente simile a quello di malvasia trattandosi probabilmente del nome di un vino (a sua volta connesso con Bacco, il dio latino dei beoni): niente a che vedere, dunque, nonostante l'assonanza, con bar, parola notoriamente inglese indicante la sbarra del bancone dei locali pubblici. Bacare, frasca, osteria o malvasia, il vino dei veneziani si beve, rigorosamente, nel goto, sul cui nome per una volta non ci sono controversie, essendo diffuso in vari altri dialetti (esiste anche un italiano gotto, ma è poco usato) e derivante dall'antico nome di un tipo di brocca con la gola stretta, che i romani chiamavano guttus perché a forma di goccia (gutta). Termine nostrano, dunque, a differenza del e molte bevande che nel bicchiere vengono versate, dagli esotici ed antichi vini greci ai modernissimi cocktail, il più elementare e popolare dei quali tiene ancora banco nelle osterie veneziane all'ora dell'aperitivo.
E' lo spritz, la cui denominazione è così vistosamente tedesca (sprìtzen significa «schizzare») da denunciare immediatamente la sua origine: assieme agli schei (che traggono il nome dalla dicitura di una moneta austriaca, Scheide Miinze, popolarmente letta schei demunze), gli spritz furono una novità lessicale (e gastronomica) dei tempi del Lombardo Veneto, quando il brioso miscuglio di vino, selz e infusi di vario tipo dovette aver successo fra i dominatori austro-ungarici, tra i quali, finita la Repubblica, si era ormai persa la memoria degli antichi vini d'Oriente.
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