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Trent’anni di Legge 180
a colloquio con Giorgio Antonucci e Maria Rosaria D’Oronzo
Trascrizione della trasmissione di Radio Onda Rossa del 13 maggio 2008.
Domanda
Raccontaci del tuo incontro con Franco Basaglia.

Giorgio Antonucci
Io ho telefonato a Basaglia se non sbaglio nel 1966. Lavoravo già a Firenze per evitare gli
internamenti psichiatrici. Allora siccome Basaglia era già famoso perché cercava di superare il
manicomio, io gli telefonai dato che i nostri scopi coincidevano. Io cercavo di evitare gli
internamenti in qualunque clinica psichiatrica e lui stava cercando di dimostrare che i manicomi e le
cliniche psichiatriche non sono la risposta. Siamo entrati in contatto in quel periodo sulla base di
questa affinità e ci siamo sentiti diverse volte. È per questo che dopo lui nel 1969 mi ha chiamato a
lavorare all’ospedale di Gorizia, il primo istituto psichiatrico che è stato messo in radicale
discussione.
L’anno prima, nel 1968, Basaglia insieme a Cotti, il professore Edelweiss Cotti di Bologna, aveva
organizzato l’apertura di un reparto neurologico a Cividale del Friuli. Era un reparto nuovo, si
chiamava neurologico, ma Cotti lo chiamò “centro di relazioni umane”. Cotti e Basaglia avevan
messo su questa iniziativa in alternativa al manicomio e fui chiamato da Cotti a lavorare lì. Era un
luogo aperto, dove entravano e uscivano quando volevano, notte e giorno. Venivano
volontariamente, non erano sottoposti a psicofarmaci, erano considerati alla pari, come persone che
avevano dei problemi da risolvere. Appunto fu chiamato “centro di relazioni umane”. Poi ci furono
complicazioni. Il nostro lavoro in realtà andava benissimo, eravamo in rapporto con le persone, con
i parenti, con i cittadini, con le istituzioni esterne. Il lavoro andava benissimo, però siccome le
nostre persone erano sempre in giro per Cividale del Friuli, il sindaco, anche se non era successo
niente di negativo, si insospettì, si rivolse al governo e fummo mandati via con la forza perché ci
rifiutammo di andar via lasciando i nostri pazienti. L’anno dopo Basaglia mi chiamò a Gorizia.
Chiamare la Legge 180 col nome di Legge Basaglia è inesatto sotto due punti di vista. Il primo
punto di vista è quello di Basaglia che non l’aveva affatto considerata una buona legge. L’altro
punto di vista collegato con questo è il fatto che se si lavorava per far sparire i manicomi certamente
non si era favorevoli agli internamenti obbligatori che alimentano i manicomi, nel senso che quando
una persona è presa con la forza, contro la sua volontà, questa persona si ribella e ne vengon fuori
tutte quelle violenze che vengono attribuite ai manicomi, ma il manicomio non è un edificio, è un
modo di fare, un criterio e questo criterio noi lo volevamo superare, sia Basaglia sia Cotti sia io sia
gli altri che lavoravamo in questo settore.
Sulle mura delle istituzioni dove lui lavorava, sia a Gorizia sia a Trieste, Basaglia faceva scrivere
“Voi li internate e noi li liberiamo”. Poi una volta che ero nella sua stanza a Gorizia, si stava
parlando e arrivò un giovane architetto che tirò fuori un progetto nuovo per una clinica psichiatrica
dicendo che avrebbe fatto sale luminose, giardini e tante altre cose belle. Basaglia lo ascoltò a lungo,
cercando di avere anche dettagli, poi di colpo gli disse: “ma lei sta perdendo tempo, perché noi
stiamo lavorando non per fare delle cliniche psichiatriche più belle, ma perché le cliniche
psichiatriche spariscano”. Perché le persone che hanno dei conflitti che sono nell’ambito della
società in quella stessa società li devono risolvere insieme agli altri senza essere esclusi.
Per cui ora Basaglia sta diventando una figura retorica, perché quelli che parlano ora in suo nome
non hanno niente a che vedere con i suoi punti di vista, come non hanno niente a che vedere con i
miei.
Domanda
Veniamo a te. Qual è il percorso che ti ha portato a occuparti di queste cose e come è
proseguita la tua attività dopo l’incontro con Basaglia?

Giorgio Antonucci
Io sono medico e psicanalista. Mi sono laureato in medicina e ho fatto il medico si in ospedale sia
come “medico condotto”, si diceva allora, adesso si parla di “medico di base”, nei dintorni di
Firenze e in alcuni quartieri di Firenze. Poi mi sono cominciato a occupare di problemi psicologici
in relazione a Roberto Assagioli, il fondatore della psicosintesi, che era un gran personaggio nel
senso che dopo aver introdotto in Italia la psicoanalisi, tra l’altro con il consenso e con
l’approvazione dello stesso Freud, si era allontanato dall’interpretazione freudiana e pensava che i
problemi psicologici consistono nel mettere in armonia i tanti aspetti della personalità, cioè faceva
un discorso di equilibri interiori, come del resto anche Freud aveva preso le distanze dal discorso
sano/malato. Io ho cominciato a lavorare con lui e nello stesso tempo a evitare gli internamenti
psichiatrici a Firenze per cui mi misi in contatto con Basaglia come ho già detto.
Dopo essere andato via da Cividale del Friuli, a Gorizia conobbi Jervis che era lì anche lui e
vedendo come lavoravo mi invitò a Reggio Emilia e lì mi sono occupato di centri di igiene mentale,
specialmente quello di Castelnuovo dei Monti dove presi rapporto con la popolazione. Evitavo gli
internamenti, parlavo con la popolazione, la popolazione si interessò e cominciarono a venire a
visitare il manicomio di San Lazzaro di Reggio Emilia. Quella è stata veramente l’unica volta al
mondo che la popolazione, e per popolazione intendo gli operai, i contadini, le casalinghe, gli
studenti, i sindaci della zona. tutti venivano a vedere cosa succedeva in manicomio perché io
avevo detto loro che in manicomio c’erano dei nostri compagni sfortunati e non delle persone che
avevano dei difetti nel cervello. Qualcuno disse: “andiamo a vedere per sapere se hai ragione tu o
gli altri” e cominciò questa storia che divenne sempre più grande, tanto che poi fui mandato via
anche se non c’era nulla da ridire sulla mia correttezza professionale, fu un problema politico.
Mandato via di lì, nel 1973 sono andato a Imola, chiamato ancora da Cotti che mi conosceva perché
eravamo stati insieme a Cividale. Dal 1973 al 1996 sono stato Imola dove ho cercato di restituire la
libertà, ho restituito la libertà alle persone, le ho messe in rapporto con l’ambiente. Quando
potevano andarsene se ne sono andate, quando non potevano vivevano lì libere e rispettate nel loro
pensiero. Questa è stata la mia attività più lunga, è durata quasi ventiquattro anni e l’ho lasciata nel
1996. Ora sono tornato a Firenze e anche ora mi occupo, quando posso, di evitare gli internamenti
psichiatrici.
Debbo dire che anche ultimamente mi è capitato di difendere persone che sono state internate con il
trattamento sanitario obbligatorio, tra l’altro senza rispettare le regole di legge. Perché la legge dice
che bisognerebbe avere un certificato proposto da un medico, un altro certificato di conferma, il
permesso scritto del sindaco e poi c’è di mezzo il giudice tutelare. Invece io ho visto persone che
vengono portate via anche di aver svolto queste pratiche per fare il trattamento sanitario
obbligatorio. Cioè prima le prendono con la forza, le portano dentro e poi svolgono le pratiche del
tso. Per cui c’è assolutamente mancanza di rispetto per la libertà del cittadino. Ogni cittadino rischia
fortemente perché tutti si può essere accusati di essere malati di mente. Perché il concetto di
malattia di mente non ha nessun fondamento né psicologico né biologico. Infatti gli psichiatri
americani che decidono quali sono le malattie e quali non sono, fino a un certo punto considerarono
l’omosessualità maschile e femminile come una malattia, poi un giorno – e questa è storia – uno
psichiatra alle loro riunione disse: “ma molti psichiatri sono omosessuali” e fu allora che decisero di
cancellare l’omosessualità dalle malattie di mente. Ora vi immaginate voi se a un convegno sui
tumori del fegato o dei polmoni si può decidere ad alzata di mano se i tumori sono o non sono una
malattia. Una malattia è un fatto biologico oggettivo, invece un giudizio moralistico non è affatto un
fatto biologico, è un pregiudizio sociale, per cui il concetto di malattia di mente non è un concetto
medico, ma è un pregiudizio sociale e va superato.
Domanda
A trent’anni dall’approvazione della legge 180 quali sono oggi gli abusi commessi dalla
psichiatria e come ci si può difendere?

Giorgio Antonucci
Per quanto riguarda i modi di difendersi dagli abusi psichiatrici io li uso sempre perché cerco
sempre di evitare gli internamenti. Intanto il cittadino dovrebbe sapere quali sono i suoi diritti. I
diritti del cittadino nei riguardi della medicina consistono nel fatto che una persona si rivolge al
medico volontariamente e ne segue le indicazioni se vuole. Per esempio nessuno si sogna, anche se
qualcuno ha tendenze autoritarie in questo senso, di costringere una persona che ad esempio ha un
tumore a operarsi se la persona non vuole operarsi. Tra l’altro tra operarsi e non operarsi in certi
casi c’è la differenza tra vivere e non vivere e comunque un cittadino ha diritto di decidere su se
stesso. Per esempio se io c’ho un tumore alla prostata e non voglio operarmi perché l’operazione
comporta delle minorazioni gravi, io decido di tenermi il tumore. Vivo meno a lungo, ma in ogni
modo sulla mia salute decido io. Un cittadino inoltre ha diritto di consultare il medico che vuole e di
seguirlo se vuole perché è padrone di se stesso, della sua salute, della sua vita. Non sono i medici i
padroni. La psichiatria va contro tutto ciò, perché i cittadini vengono obbligati dagli altri a
sottoporsi a trattamenti medici, tra l’altro anche dannosi, senza che abbiano dato il consenso. In
questo consiste il trattamento sanitario obbligatorio. E questo non lo si può certamente chiamare
legge Basaglia perché Basaglia siccome sapeva bene quello che voleva non si sarebbe messo a
sostenere l’abolizione dei manicomi e a praticarla se avesse pensato che è giusto prendere un
cittadino con la forza e portarlo da qualche parte. Per quanto riguarda gli abusi la psichiatria ne
commette di ogni tipo perché nel momento in cui si prende una persona con la forza quel che ne
discende è tutto un abuso. Perché presa una persona con la forza, con l’uso della polizia e portata in
una clinica o anche in un ospedale civile, la persona naturalmente non ci vuole stare e se ne vuole
andare, allora chiudono la porta, la persona si ribella e le fanno la puntura, la persona continua a
ribellarsi e la legano al letto e così via. Se si parte dal principio di poter prendere una persona
contro la sua volontà tutte le conseguenze sono quelle violenze che sono state descritte attraverso
gli anni e che sono presenti in tutto il mondo nei manicomi. Che poi si chiamino in un modo diverso
da manicomio credo che ci interessi poco.
Domanda
Parlaci del Telefono Viola

Maria Rosaria D'Oronzo
Il Telefono Viola nasce dall'esperienza di Giorgio Antonucci e dal suo lavoro che ha fatto a Imola
che era quello di liberare le persone dalle istituzioni e dall'ideologia della psichiatria e restituire loro
la libertà, la dignità, l'autonomia e l'autogestione.
Come associazione Telefono Viola è presente in otto città italiane e ogni Telefono Viola ha un
proprio statuto, cioè esiste un coordiniamo tra i diversi Telefoni Viola. È un'associazione che si
occupa degli abusi commessi sul piano legale dalla psichiatria, perché su questo terreno c'è un certo
margine di intervento. Quando parlo di abusi legali voglio dire i Trattamenti Sanitari Obbligatori
(TSO) fatti in modo indiscriminato e fuori dai termini di legge, oppure prescrizioni di farmaci sui
cui effetti le persone non vengono informate o altre minacce e ricatti. In Italia ad esempio c'è
l'abitudine di far passare per Trattamenti Sanitari Volontari (TSV) quelli che in realtà sono TSO,
mentre la legge è molto chiara su questo: in caso di TSV si ha più libertà, si può uscire dal reparto,
ci si può muovere liberamente dentro e fuori il reparto come in qualsiasi altro ospedale o reparto
ospedaliero generico. Invece in psichiatria succede che le persone vengono portate nei reparti di
diagnosi e cura sotto minaccia, spesso con la violenza e la forza, facendo passare il ricovero come
volontario e trattando le persone, invece, come se si trattasse di un ricovero coatto. Tutto questo è
fuori dai termini di legge. Il Telefono Viola si occupa quindi di dare le informazioni legali sui diritti
che le persone hanno in queste strutture e informazioni per quanto riguarda gli psicofarmaci perché
ha luogo una prescrizione di farmaci a iosa da parte dei medici. La concomitanza di molecole
favorisce quello che viene detto “effetto collaterale”; la persona che assume i farmaci non è
informata di questi effetti per cui si ritrova a subirli sul proprio corpo senza averne le conoscenze
adatte.
A Bologna abbiamo anche la possibilità di avere uno “sportello delle relazioni umane” che significa
un servizio in cui si cerca di mettere d'accordo la persona designata all'internamento e tutte quelle
che le sono vicine, siano esse i parenti o le persone del condominio dove la persona vive, o i
colleghi sul posto di lavoro. L'accordo è finalizzato a trovare una soluzione che non consista
nell'allontanamento, isolamento, segregazione.
Sempre a Bologna abbiamo l'impegno della prossima apertura del “Centro di relazioni umane” per
la diffusione di una cultura che non preveda l'intervento psichiatrico. Approfitto della trasmissione
per invitare individui o gruppi bolognesi a continuare il lavoro del Telefono Viola a Bologna.
Domanda
Dal punto di vista concreto come si fa ad aiutare una persona in TSO o una persona
sottoposta a terapia psicofarmacologica?

Maria Rosaria D’Oronzo
Innanzitutto si può ricorrere all'espediente della legge, ovvero dal modo in cui è legiferato in Italia il
TSO. Ci sono delle figure istituzionali che fanno da garanti di questo provvedimento che sono nello
specifico il sindaco e il giudice tutelare. Il sindaco è la persona che decide se il TSO debba essere
effettuato o meno. Vista l'incapacità, soprattutto nelle grandi città, da parte del sindaco di conoscere
le situazioni in cui vengono disposti i TSO, noi come volontari del Telefono Viola, ma la cosa può
essere fatta da qualsiasi altro cittadino italiano, sfruttiamo la possibilità di poter andare dal sindaco a
chiedere e fornire spiegazioni sul conflitto in atto che riguarda il TSO. La psichiatria in effetti si
occupa di conflitti tra persone, non si occupa certo della salute o di possibili malattie. Quando è in
atto un conflitto, ovvero due persone litigano, quella che ha più potere chiama lo psichiatra. Per
questo può essere importante andare dal sindaco a spiegare la situazione fuori da una schedatura e
dallo schema proprio della psichiatria. A volte questo può aiutare a liberare la persona dal
manicomio dal reparto di diagnosi e cura. L'altra possibilità è quella di andare dal giudice tutelare,
che è una figura che dovrebbe tutelare ogni cittadino dagli abusi di legge. Queste due mosse non
portano spesso alla liberazione immediata della persona internata, ma sono necessari per una
minima tutela dell'internato anche se si decide di procedere per le vie legali.
Riguardo alla dismissione di psicofarmaci sono stati scritti diversi libri, presenti anche in Internet.
Ci sono diversi metodi di scalaggio: bisogna fare attenzione ai segnali del corpo e integrare con
magnesio, potassio e vitamine del gruppo B.
Un discorso a sé è quello del depot o farmaco ritardante. Viene fatta una puntura ogni 15 giorni
oppure ogni 21 giorni, oppure ogni 28 giorni presso il Centro di Salute Mentale. In questo caso è
necessario che lo psichiatrizzato convinca lo psichiatra della sua buona fede, di essere ubbidiente. Il
depot viene fatto in caso di sospetto che la persona rifiuti la cura. Oggi è di moda il depot di
Risperdal (Risperidone).

Source: http://www.ondarossa.info/scarceranda/2009_testi/italia_psichiatria_basaglia.pdf

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